La violenza passa anche dalle parole. Frasi che feriscono, che umiliano, che ci fanno sentire insicure e colpevoli, incerte e costrette in schemi predeterminati. Siamo tutt3 d’accordo? Ne dubito.
Nel lessico quotidiano si nascondono messaggi impliciti che perpetuano violenze sistemiche. Una delle manifestazioni più sottili, e per questo più insidiose, del patriarcato è il linguaggio, che spesso passa inosservato e si mimetizza nel “buonsenso” o nel “consiglio per il tuo bene”.
Succede, all’improvviso, che quelle parole cominciano a girarti vorticosamente nella testa, senza poterne controllare la portata d’ansia e angoscia che si trascinano dietro.
Qualche tempo fa, di ritorno dal lavoro, a piedi e percorrendo la solita strada verso casa, ho cominciato a sentire l’ospite inquietante: il vecchio buonsenso paternalista. Guardandomi intorno per essere certa di non trovarmi in situazioni strane, ho subito pensato alla ben nota frase (dobbiamo davvero citare l’autrice?): «Occhi aperti e testa sulle spalle».
Ho provato un senso di disagio e umiliazione, immaginando che in quel preciso istante fosse rivolta a me. Una voce nella testa che mi stava dicendo: perché non prendi l’auto? Perché cammini da sola, mettendoti consciamente in pericolo?
Ebbene sì, in quel momento mi sono sentita colpevole di aver fatto una scelta, di essermi autodeterminata nel semplice fine di spostarmi a piedi, da sola, senza aver pensato a ciò che poteva succedermi.
La frase incriminata, difatti, sottintende che il mondo sia un luogo pericoloso, da cui proteggersi attraverso comportamenti “giusti” e “prudenti”, insinuando che chi non segue queste indicazioni possa essere in qualche modo responsabile delle proprie disgrazie.
Espressioni di questo tipo sono solo una piccola parte di un sistema più ampio: il patriarcato (che ormai è diventata una “parolaccia”; guai a pronunciarla!), che non si limita a esercitare potere attraverso un sistema di esclusione o di violenza fisica, ma agisce anche a livello culturale e linguistico. Ogni parola, ogni espressione che diamo per scontata contribuisce a costruire e mantenere una narrazione che rende normale ciò che dovrebbe essere inaccettabile.
Dietro queste espressioni si nasconde un meccanismo di colpevolizzazione. In parole povere: se ti accade qualcosa, te la sei cercata. Qualcuno più violento, oltre che ottuso e retrogrado, potrebbe spingersi a pensare, con “intima gioia”: ben ti sta”
Questo meccanismo è pericoloso, in quanto sposta il discorso pubblico dalla necessità di un cambiamento culturale verso una gestione individuale dei rischi. E così, il patriarcato trova una nuova via per sopravvivere, mascherandosi da premura o prudenza. Infatti, si dice sia morto e sepolto questo benedetto patriarcato, eppure pare goda di ottima salute!
Fermiamoci, però, un attimo a riflettere. Se queste frasi le pronuncia il nonno o il tizio che prende il decimo caffè corretto al bar, infastidisce, ma resta lì (più o meno; è inaccettabile anche così, ma il contesto aiuta comprendere).
Ma se queste partono da chi sta al vertice delle istituzioni? Beh, allora siamo proprio all’amaro, neanche alla frutta.
Pensiamo ad esempio alle uscite più note della nostrana “politica”:
- «Però se eviti di ubriacarti e perdere i sensi magari eviti anche di incorrere in determinate situazioni problematiche e poi rischi che il lupo lo trovi». Sottotesto: “stai a casa e fai la brava ragazza, così non succede nulla“;
- «Poco credibile denunciare dopo 40 giorni». Sottotesto: “ti sminuisco, perché è impossibile che tu possa infangare il buon nome del maschio bianco etero basico”;
- «Io sono ministro e uomo, nessuno ti crederà». Sottotesto: “vuoi davvero sfidare il maschio al vertice della società? Davvero?“;
- «Un uomo normale guarda il bel c… di una donna e forse ci prova anche». Sottotesto: “al maschio è permesso; non fa nulla se ti senti a disagio. Sorridi, non fare l’acida: è un complimento”;
- «Ruolo naturale della donna è in famiglia». Sottotesto: “se stai a casa stretta nel tuo ruolo, nessuno ti farà del male; ti è chiaro?”;
- «Il patriarcato come fenomeno giuridico è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975». Sottotesto con una bella manciata di gaslighting: “sei pazza, vedi il patriarcato ovunque!“;
- «Nessuna legge poteva salvare Giulia». Sottotesto: “…e nessun’altra donna. Il concetto di formale ci sta; è il sostanziale che esiste solo nei tuoi sogni!“;
- «Più violenze sessuali? Colpa dei migranti». Sottotesto: “è lo “straniero” che devi temere; il maschio bianco che vive sotto il tuo stesso tetto al massimo è colto da un raptus o da eccesso di ‘amore‘”.
Queste e molte altre frasi. Molti rideranno. Altri le troveranno innocue. Qualcuno sarà indifferente. Pochissime ne saranno turbate. E questo contribuisce a rendere normale ciò che terribilmente normale proprio non è.
Passa solo l’idea che dobbiamo temere chi viene da un altro Paese e da un’altra cultura. Non importa se, quando ci guardiamo intorno, per strada, ovunque, a fare paura è qualsiasi uomo. Fuori, in stazione, nella metro, in casa, in una stanza, sobrie o brille.
Io ci penso. Spesso. Allora, in quei pochi minuti di angoscia, prendo il cellulare e chiamo la mia mamma. Non le dico che sono sola e a disagio. Le racconto qualche sciocchezza, la faccio ridere. Lei non sa, io non penso a ciò che sta intorno.
Per sentirmi tranquilla ho bisogno di stare al telefono. Perché è evidente che né il contesto sociale né la politica facciano nulla affinché noi, donne, possiamo vivere serenamente le nostre piccole e grandi scelte di quotidiana autonomia.
E da quel che sentiamo, ma soprattutto da chi proviene quel che sentiamo (cioè, coloro che dovrebbero impegnarsi per cambiare le cose), ne usciamo senza speranza, mentre continuiamo a subire frasi violente nel silenzio e, a volte, fra le polemiche inutili di molti.